APPUNTI DI EBRAISMO

 

PRIMA PARTE

 

La narrazione di quattromila anni di storia ebraica, non può esaurirsi nello spazio di poche pagine. Ciò che leggerete in questo lavoro, è solo una estrema sintesi di alcuni aspetti cerimoniali del popolo di Dio, con il quale è stato stipulato un patto irrevocabile (Romani 11:1).

Nel racconto legato alla vicenda del popolo ebraico, la data del 9 Av del 70 d.C. segna una tappa fondamentale in ordine alla sua definitiva trasformazione, all’interno della storia secolare. Quell’anno i Romani distrussero il Tempio di Gerusalemme, che da allora non fu più mai più ricostruito. Anche se, in realtà, l’imperatore romano Flavio Claudio Giuliano (361-363 d.C) pensò di poterlo riedificare, offrendo del denaro a Hilkiah, rabbino dell’epoca. Questi rifiutò, motivando il fatto che sarebbe stato un sacrilegio permettere che i non Ebrei, potessero avere una propria parte nella ricostruzione del Tempio. A riprova di ciò, in base a quanto raccontano gli storici cristiani Ammiano Marcellino (330-400 a.C.) e Sozomeno (400-450 d.C.) sembra che nonostante tali difficoltà, il progetto venne poi affidato ad Alipio di Antiochia, il quale lo abbandonò subito, perché quando gli operai si accingevano ai lavori di edificazione, contemporaneamente dalle viscere della terra emergevano delle spaventose palle di fuoco che impedivano il proseguimento dell’opera. E così non se ne fece più nulla.

Facendo tuttavia un passo indietro, bisogna sapere che la vita religiosa, fino a quando il Tempio sussistette, ruotava proprio intorno al santuario di Dio, nel quale si offrivano sacrifici quotidiani e festivi. Il culto veniva regolato da una normativa che ne stabiliva tempi e modi, e affidava ruoli distinti alle tre categorie in cui il popolo ebraico si distingueva: sacerdoti, leviti ed Ebrei comuni. La gestione diretta era, in realtà, prerogativa quasi esclusiva delle prime due classi, mentre la terza ricopriva in gran parte un ruolo di sostegno, attuato con l’organizzazione in turni di preghiera e di digiuno. Ecco perché quando il Tempio fu distrutto, si creò un vuoto irreparabile; nondimeno, già da alcuni secoli ed in forme sempre più definite, era nata una organizzazione periferica di culto, complementare ma distinta da quella del Tempio. La comunità dei credenti si incontrava in strutture chiamate Bathè Kenesiòth, ‘case di riunione’; questa espressione fu letteralmente tradotta in greco col termine Sinagoga, e ha conservato fino ad ora questo nome. Nelle Sinagoghe i fedeli si riunivano sia per scopi non strettamente religiosi, come in occasione di assemblee civili, sia per scopi religiosi come lo studio e la preghiera in comune. Responsabili della struttura non erano i sacerdoti ma laici, tra le quali spiccavano i rabbini, veri e propri maestri della tradizione giudaica. Elemento centrale della nascente liturgia sinagogale, oltre alla preghiera, fu la lettura del testo del Pentateuco, divisa in sezioni settimanali, le famose Parashòth che a loro volta completavano il testo in cicli annuali o triennali. L’ organizzazione della preghiera prese a modello i ritmi e i tempi del culto nel santuario, dove si offrivano due sacrifici quotidiani, il mattino e il pomeriggio; da questi appuntamenti, in seguito alla distruzione del Tempio, derivò la scelta dei momenti specifici per la preghiera mattutina di Shachrìth (termine ebraico tradotto con “luce del mattino”) e per quella pomeridiana di Minchà (traduzione legata al nome dell’offerta di farina); inoltre, nei giorni festivi, in cui era prescritto un sacrificio aggiuntivo, venne inserita una ulteriore preghiera detta di Musàf (espressione ebraica che significa “aggiunta”), la quale si recita al mattino, successivamente alla lettura della Torà. Chiude il ciclo delle orazioni, la preghiera serale di ‘Arvìth (traduzione di tramonto o vespro) e proprio perché non in rapporto a un momento sacrificale, se non l’offerta dell’incenso, rimase in qualche modo di secondaria importanza. Tali preghiere sostituirono la celebrazione dei sacrifici, tanto che i rabbini videro in questa evoluzione, l’avveramento delle parole profetiche di Osea 14:2, che aveva predetto "noi ti offriremo, invece dei tori, l’offerta di lode delle nostre labbra".

Da questi presupposti, le Sinagoghe sono diventate uno dei riferimenti centrali della vita religiosa ebraica, ma non il suo centro esclusivo: all’importanza del luogo pubblico di preghiera, l’ebraismo associa, talora attribuendogli maggiore sacralità della Sinagoga, quella del luogo di studio, dove la tradizione viene trasmessa e rivitalizzata con nuovi continui apporti; inoltre, la vita liturgica non si esaurisce nella Sinagoga, perché una sua ampia e non meno importante parte, si svolge entro le mura domestiche come luogo più naturale, o in altre sedi, diverse dalle Sinagoghe, che per vari motivi non accolgono, per consuetudine, o per esplicito divieto, certe manifestazioni liturgiche. Ad esempio la celebrazione dei matrimoni si svolge nelle Sinagoghe soltanto in alcune comunità, come accade in quella ebraica italiana; mentre i funerali sono sempre estranei alla Sinagoga, perché il defunto è considerato impuro e non può essere introdotto in un luogo consacrato.

Non esiste un modello di costruzione che sia univoco per l’edificazione di una Sinagoga, ma solo alcune regole generali da rispettare. In genere, ad esempio, l’estetica esterna dell’edificio non richiede particolari regolamentazioni. Inoltre, nella storia vi sono state soluzioni molto differenti tra di loro; ciò è dovuto a diversi fattori, come la diaspora geografica del popolo ebraico, che ha risentito in tal modo di influssi culturali e architettonici tra i più disparati; ed ancora, da non dimenticare la pressione della società, sovente antiebraica, la quale ha proibito la costruzione di edifici sinagogali esternamente sontuosi; ed infine l’ideologia interna delle stesse comunità ebraiche, che dall’epoca dell’emancipazione, proprio come reazione a cessate proibizioni esterne, ha voluto produrre manufatti monumentali dalle più svariate influenze architettoniche. Per quanto riguarda la struttura essenziale di questi edifici, si considerano alcuni elementi: in primo luogo l’orientamento della sala, che deve consentire ai fedeli, in determinati momenti della preghiera, di volgersi verso Gerusalemme; per questo motivo, nel lato che è orientato verso Gerusalemme si colloca generalmente l’elemento più sacro dell’edificio, che è un armadio (Aròn) dove sono riposti i rotoli in pergamena sui quali è stato trascritto a mano, con particolari tecniche reverenziali, il testo del Pentateuco; tali rotoli sono rivestiti di tessuti preziosi, risposti in custodie con forme differenti secondo le varie tradizioni, e ornati con corone di metalli preziosi; quando nelle Sinagoghe si legge il Pentateuco, è di questi rotoli che si fa uso con particolare solennità e devozione. Altro polo essenziale è appunto la Bimà , da cui il cantore dirige la preghiera e legge la Bibbia, e che abitualmente viene in qualche modo sopraelevata rispetto al pavimento. La Bimà può essere situata in vario modo rispetto all’Aròn, anche se nelle forme più tradizionali si colloca al centro della sala o all’estremo opposto, come nelle antiche Sinagoghe italiane. Tuttavia, uomini e donne si accomodano in due ambienti separati, su due piani differenti divisi da una struttura interna. I posti d’onore vengono riservati ai dirigenti della comunità. Animatore della liturgia sinagogale, resta sempre l’hazàn, cantore professionale che svolge le funzioni liturgiche più importanti e quindi non è necessariamente un rabbino, al quale spetta il ruolo di controllare la correttezza rituale dello svolgimento delle funzioni, e di illustrare i contenuti delle Scritture con lezioni ed omelie.

Davanti all’Aròn, brilla in permanenza la Menoràh, candelabro sacro a ricordo di quello che ardeva nell’anticamera del luogo più riposto del Tempio. In tal modo si sottolinea una sorta di continuità, rispetto  all’antico Tempio, e al tempo stesso si mantiene la differenza con altri segni, come ad esempio una parte di muro che si lascia senza intonaco, a ricordo del Tempio distrutto.

IL CULTO DEL GIORNO DI SABATO

Nella vita religiosa dell’ebraismo il Sabato ha un ruolo fondamentale. Questo giorno (che inizia con il tramonto del Venerdì e finisce con l’uscita delle stelle della sera di Sabato), non è soltanto un momento festivo e di riposo. Nella storia dell’umanità (che deve agli ebrei l’idea di un riposo settimanale), questa istituzione è stata una conquista rivoluzionaria. Difatti prima degli Ebrei, il riposo non era per nulla normato in chiave di regolarità. I Romani, quando scoprirono il riposo sabbatico, accusarono gli ebrei di sprecare nell’ozio il proprio tempo, per un settimo della loro esistenza. Con l’istituzione del Sabato inoltre, l’intera società fu posta sullo stesso piano, con il diritto per tutti (schiavi e animali compresi) di poter riposare. Ma la prospettiva sociale, per quanto importante, non esaurisce il senso dell’istituzione, che porta nella sua essenza un profondo significato religioso. Il Sabato è legato alla storia biblica della creazione: per la Genesi, il Signore creò il mondo in sei giorni e nel settimo "cessò". Il passato remoto del verbo cessare, in lingua ebraica si declina in Shavàth, che translitterato diventa Shabbàth, da cui il termine Sabato in italiano e nelle altre lingue che lo traducono. Riposarsi nel giorno di Sabato significa riconoscere Dio come creatore, e inserire l’uomo nella sua dimensione più propria e completa. Per realizzare ciò, il Sabato, come viene prescritto nelle grandi linee dalla Bibbia, dagli Ebrei viene osservato con grande rigore. Il culto sabbatico si esprime in diversi ambiti: da quello pubblico, a quello privato domestico, fino a quello più importante, del comportamento personale. Trattandosi di una giornata festiva, nella quale i fedeli non dovrebbero essere impegnati nel lavoro, si ha maggior tempo per le riunioni pubbliche di preghiera, che diventano più lunghe e solenni, abbellite da canti, accompagnate dagli interventi esplicativi dei rabbini, e talora coronate con piccoli rinfreschi pubblici, nei locali adiacenti la Sinagoga. Per la maggiore presenza di pubblico, e per onorare la giornata festiva, molte circostanze gioiose, come la maggiore età per maschi e femmine, vengono solennizzate pubblicamente proprio nelle riunioni sinagogali Sabbatiche. Successivamente alla parte pubblica, i fedeli tornano nelle proprie abitazioni, dove la liturgia domestica assume un ruolo centrale. Prima del tramonto, vengono accesi due lumi in prossimità della tavola dove si mangia. Tutto il cibo è già pronto, visto che di Sabato non si può cucinare; la mensa è festiva, addobbata con gli oggetti più preziosi della casa, e i cibi sono sempre i migliori. Prima di mangiare si segnala la particolare sacralità del momento, con una solenne benedizione che si recita con un calice di vino; quindi si benedice il pane, che è doppio, a ricordo della manna nel deserto che il venerdì cadeva in misura doppia, conservandosi fino all’indomani, per consentire il riposo sabbatico. Alla fine del pasto si cantano degli inni religiosi, terminati i quali la conseguente benedizione viene recitata con particolare solennità. La stessa speciale solennità della cena, si ricrea nel pranzo del giorno successivo.

Ma la vera e più completa dimensione religiosa del Sabato, si realizza nella pratica personale. Per un osservatore esterno, risulta spesso difficile comprendere il particolare rigore che queste norme ebraiche esprimono. Infatti, non è soltanto proibito lavorare (salvo che da questa astensione, derivi un pericolo per la vita del prossimo), ma sono interdette anche molte altre attività che apparentemente non hanno rapporti con il lavoro, quanto più con le azioni: scrivere, cucinare, trasportare oggetti per la strada, accendere la luce, viaggiare in automobile. Difatti non si tratta di lavoro nel senso ordinario del termine, ma di qualsiasi azione intelligente con la quale l’uomo modifica la realtà che lo circonda; ecco perché il raggio del divieto è così ampio. Ma qual è la logica del divieto? La risposta è semplice. Con tali gesti, l’uomo dimostra la sua qualità di essere intelligente che domina la natura; se l’uomo non dimostra di essere capace, per un giorno alla settimana, di liberarsi da questa sua potenza, ciò potrebbe diventare anche un vincolo che lo inchioda ad una forma di idolatria; se invece l’uomo se ne libera per un giorno, da un certo punto di vista riconosce che il vero creatore e trasformatore dell’Universo è Dio, e dall’altro lato riscopre, insieme ai suoi limiti oggettivi, gli aspetti più profondi e più elevati della sua natura umana che, liberata dai vincoli del lavoro, si concentra esclusivamente sulla propria spiritualità, riappropriandosene. I testi rabbinici esprimono tale concetto con l’immagine simbolica di una "anima supplementare" che di Sabato si aggiunge a quella di ognuno. Proprio perché alla fine del Sabato si crede quest’anima se ne vada, lasciando ai fedeli il peso della ripresa della quotidiana lotta per l’esistenza, anche l’uscita del Sabato viene segnalata con una breve cerimonia liturgica di "separazione", in cui si respirano dei profumi per sostenere simbolicamente l’anima abbandonata, e si riaccende un fuoco per segnalare la riappropriazione della forza trasformatrice della natura.

 

1) PREGHIERE FONDAMENTALI DELL’EBRAISMO

 

La vita liturgica ebraica è scandita, come si è detto, da momenti di preghiera che hanno il loro modello originario nel culto del Tempio di . In queste occasioni, sia che il fedele si trovi in Sinagoga, sia che si trovi altrove e da solo, in ogni caso vengono recitate delle preghiere secondo un ordine ben determinato. Il processo di elaborazione di un formulario di preghiere (Siddur) è durato per secoli, con la progressiva aggiunta di brani di poesia religiosa; ma nelle sue linee essenziali, le principali preghiere ebraiche erano già state fissate nell’epoca della formazione del Talmud (V-VI secolo). In rapida successione consideriamone alcune tra le più importanti. La prima, che non è essenzialmente una preghiera, ma una sorta di dichiarazione di fede è detta Shemà, cioè "ascolta", dalla sua prima parola; è una combinazione di tre brani biblici (Deuteronomio 6:4-8; 11:13-21; Numeri 15:37-41), di cui il primo in particolare risalta per la sua importanza, proponendo il tema della fede in un Dio unico: "Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è uno”: poi, al testo biblico, viene aggiunta questa frase: “Benedetto il nome della sua gloria in eterno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua persona e con tutto il tuo vigore. Queste parole che ti comando oggi saranno sul tuo cuore; le inculcherai ai tuoi figli e ne parlerai con loro, quando stai a casa e quando cammini per la strada, quando ti corichi e quando ti alzi. Le legherai come segno sul tuo braccio e saranno come segnali tra i tuoi occhi. Le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte." I brani successivi trattano il tema della punizione e della ricompensa, nel ricordo dell’uscita dall’ Egitto. Lo Shemà, preso alla lettera, viene recitato due volte al giorno, nella preghiera del mattino e poi in quella serale: in quest’ultimo caso al momento di coricarsi. Nella lettura sinagogale, esso viene preceduto e seguito da formule di benedizione, che esaltano l’opera della creazione, il regno divino e l’amore per il popolo d’Israele a ricordo degli interventi miracolosi di Dio, narrati nella Scrittura. In tal modo, viene esaltata l’importanza della lettura dello Shemà, che diventa la dichiarazione elementare ed essenziale della fede ebraica, ripetuta, oltre che nella quotidianità, anche all’orecchio di chi sta per lasciare questa vita.

Dopo lo Shemà, la più importante tefillà, o preghiera per antonomasia, è quella definita delle "Diciotto benedizioni". Pur essendo letteralmente diciotto in una prima raccolta, tuttavia nel primo secolo se ne aggiunse una diciannovesima, anche se il nome della preghiera non fu più cambiato. Questa lunga orazione inizia con una breve e solenne citazione del Salmo 51:15, "O Signore, schiudi le mie labbra, affinché la mia bocca narri la Tua lode", per poi dividersi in tre parti. La prima comprende le tre benedizioni di esaltazione (ricordo del merito dei Patriarchi; prodigi divini e resurrezione dei morti; proclamazione della regalità divina); dalla quarta alla sedicesima seguono una serie di richieste collettive: il perdono e la misericordia per i giusti, la fine delle sofferenze e la redenzione, la salute, la pioggia e la rugiada, la ricostruzione di Gerusalemme e il ritorno del regno di David; le ultime tre benedizioni sono di ringraziamento, ed esprimono la speranza nel ritorno divino a Sion, nella bontà e nella misericordia divina, concludendosi con questa formula: "Poni la pace, il bene e la benedizione, vita, grazia, amore e misericordia su di noi e su tutto il tuo popolo d’ Israele; benedicici, nostro Padre, tutti insieme con la luce del Tuo volto (...) Benedetto sia il Signore, che benedice il Suo popolo d’Israele con la pace, amèn. Che i detti della mia bocca Ti risultino graditi, insieme a ciò che il mio cuore medita, o Signore, mio difensore e redentore. Colui che stabilisce la pace nelle altitudini celesti, con la sua misericordia conceda la pace a noi e a tutto Israele, amèn."

Le "Diciotto benedizioni" si recitano in ognuna delle tre preghiere quotidiane, in posizione eretta a piedi uniti (da cui il termine Amidàh), "con gli occhi aperti rivolti verso la terra e con il cuore rivolto al cielo"; dopo la recitazione individuale, il cantore ripete a voce alta il testo per coloro che per qualche motivo non sono in grado di recitarlo. Durante la recitazione personale e silenziosa, prima della diciassettesima benedizione, il fedele ha l’occasione di inserire nella preghiera le sue richieste personali. La preghiera spontanea è consentita ed anche incoraggiata dalla tradizione ebraica, ma solo come integrazione che non deve mai sostituirsi alle formule codificate, che hanno il ruolo di esprimere le esigenze di una collettività. Durante le giornate festive, la parte centrale della preghiera delle "Diciotto benedizioni" è sostituita da formule generalmente più sintetiche che sottolineano la particolare sacralità del momento che si festeggia.

Una breve preghiera, nata come formula di chiusura per riunioni di studio o parti di preghiera, e che successivamente è entrata nella preghiera pubblica istituzionale come componente importante, è il Qaddìsh, termine che si traduce con la parola santificazione. La nascita informale di questo testo, spiega sia la presenza della lingua aramaica (mentre la maggior parte delle preghiere sono in ebraico), che le numerose varianti adattabili a diverse circostanze. In quanto preghiera collettiva, la recitazione del Qaddìsh può essere fatta solo in presenza di dieci adulti, situazione che si indica col termine Minian. Il testo del nucleo essenziale è questo: "Sia reso grande e santo il Suo nome, nel mondo che ha creato secondo la Sua volontà, e dove realizzerà il Suo regno, durante la vostra vita e i vostri giorni, e nella vita di tutta la casa d’Israele, presto e in un tempo vicino”. Dopodiché il pubblico risponde: “Sia benedetto il Suo grande nome, per sempre e in eterno benedetto. E sia lodato, glorificato, innalzato, portato in alto, esaltato e celebrato il nome del Santo benedetto. Sia accolta la preghiera e la richiesta di tutta la casa d’Israele di fronte al loro Padre in cielo e dite: amèn."

Le "Diciotto benedizioni" sono solo una parte di un programma quotidiano di almeno altre cento benedizioni, che il fedele è tenuto a recitare. Queste hanno un nucleo essenziale in comune: "Sii benedetto Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo che...." e al posto dei puntini si inserisce, di volta in volta, una espressione di ringraziamento per un bene che è stato dato in godimento all’uomo, come si fa ad esempio prima e dopo aver mangiato. La stessa recita può esprimersi prima di compiere un atto rituale, ricordando che quella azione si esegue perché è stato il Signore a prescriverla. Infine si benedice il Signore per solennizzare momenti o esperienze particolari della vita. Per ogni cosa nuova, ad esempio, si conclude la formula dicendo ".... che ci hai fatto vivere, ci hai mantenuto e fatto giungere a questo momento". L’idea che sta alla base delle benedizioni è molto semplice: è una forma di educazione sistematica, che mette continuamente l’uomo in rapporto con il suo Creatore, al quale si attribuisce il dono del bene goduto, e la guida benigna e serena dell’ universo.

 

2) LE PRINCIPALI FESTE EBRAICHE

 

Oltre al Sabato, che è certamente la più frequente delle feste ebraiche, il calendario religioso contiene numerose altre occasioni festive. Un primo gruppo di tre grandi ricorrenze, ha lontane radici bibliche relative al ciclo agricolo. Il popolo ebraico, legato originariamente alla terra di Abramo, Isacco e Giacobbe, durante le sue peregrinazioni, ha comunque mantenuto il ricordo di origini e significati. Quando esisteva il Tempio le tre feste, Pesach (la Pasqua), Shavuòth (la festa delle Settimane), e Succòth (la festa delle Capanne o dei Tabernacoli), erano l’occasione di pellegrinaggi di massa a Gerusalemme. I riferimenti agricoli originari, sono rispettivamente la primavera, la prima mietitura e la vendemmia. Su questi significati ne sono stati sovrapposti altri di carattere storico e religioso; Pesach è diventata la festa in ricordo dell’uscita degli Ebrei dalla schiavitù egiziana, Shavuòth la festa della promulgazione del decalogo sopra al monte Sinai, e Succòth in ricordo dei 40 anni trascorsi dagli Ebrei nel deserto, quando lungo la strada verso la terra promessa, dimorarono in capanne. La celebrazione di queste tre solennità, segue tuttora degli schemi rituali prescritti già nella Bibbia. La Pasqua cade il 14 di Nisan, cioè nel primo plenilunio di primavera, e dura sette in Israele giorni otto nella Diaspora; non si fa più, mancando il Tempio, il sacrificio dell’agnello pasquale, ma se ne ricorda l’istituzione. Due i riti fondamentali della ricorrenza: l’astensione da tutte le sostanze lievitate e quindi il consumo di solo pane azzimo, cioè non lievitato, a ricordo della miseria del pane della schiavitù e della fretta dell’uscita dall’Egitto, evento il quale non lasciò il tempo per la lievitazione naturale; e poi la cena della sera del 15 di Nisàn, segnata da un ordine preciso e minuzioso di atti e cibi rituali: azzime, quattro bicchieri di vino, erbe amare a ricordo dell’amarezza della schiavitù, ed un impasto dolce di frutta chiamato Karosèth, a ricordo della malta per i mattoni che il Faraone faceva fabbricare. Lo scopo di tutto questo, illustrato dalla lettura della Haggadà, interpretazione rabbinica degli eventi della salvezza, è quello di conservare e di trasmettere alle generazioni future la memoria della liberazione ottenuta. Dopo sette settimane, ossia quarantanove giorni, segue la festa di Shavuòth, che in Israele dura un solo giorno e due nella Diaspora. Si tratta di una celebrazione caratterizzata dalla presentazione delle primizie al Tempio. Per questo motivo, gli addobbi floreali abbelliscono gli interni delle Sinagoghe. Essendo tale festa, legata alla promulgazione del Decalogo, questo avvenimento viene solennemente ricordato con letture bibliche e con riunioni domestiche di studio. Invece, la festa delle Capanne cade in autunno, al plenilunio del primo mese dell’anno ebraico di Thisrì,  caratterizzandosi per la costruzione di capanne, ove ognuno ha l’obbligo di dimorare, o almeno di consumare i propri pasti durante tutta la durata della festa. Essa dura sette giorni in Israele e otto nella Diaspora. Questo è un modo, come già detto, per ricordare un epoca della storia biblica, ma ancor di più per segnalare la precarietà della condizione umana, insieme alla fede nella protezione divina. Durante la preghiera festiva, i fedeli, per esplicita prescrizione biblica agitano il Lulàv, un mazzo di quattro specie vegetali composto da un ramo di palma, due di salice, tre di mortella e un cedro. Alla fine di Succòth un giorno a parte viene dedicato a festeggiare, con particolare allegria e solennità, la fine e il nuovo inizio del ciclo annuale di lettura sinagogale del Pentateuco. La festa di Succoth, a sua volta viene preceduta da due altre ricorrenze importanti. All’inizio del mese si celebra per due giorni il Rosh haShanà, il capodanno, che per quanto sia una occasione festiva, è centrato sul tema della Teshuvàh, ossia del pentimento e del ritorno a Dio. Per richiamare i fedeli alla penitenza, in tutte le Sinagoghe si ascolta il suono di un corno di montone, lo Shofàr. Infine, al decimo giorno del mese, cade l’altra ricorrenza importante, lo Yom Kippùr, il giorno dell’espiazione, al quale si attribuisce il significato di rivisitazione del proprio comportamento, in attesa del giudizio divino che ogni anno stabilisce la sorte dell’uomo. Il Kippùr è giorno festivo, ma viene celebrato con un digiuno assoluto di 25 ore, da una sera all’altra, e con una lunga seduta di preghiera che si interrompe solo nella notte. Lunghe recitazioni penitenziali, accompagnate da ampie illustrazioni rabbiniche, segnalano l’eccezionale natura di questa giornata. Alla fine del digiuno, dopo il breve suono dello Shofàr, i fedeli si riuniscono nelle famiglie per una cena festiva di interruzione del digiuno.

Il calendario ebraico comprende ancora altre ricorrenze festive. Il 25 di Kislew (che cade in un giorno mobile di dicembre), apre la celebrazione della festa di Hanuccà, espressione che si traduce col vocabolo "inaugurazione", a ricordo della vittoria degli Ebrei nella guerra di indipendenza contro Antioco IV Epifane, re siriano dei Seleucidi. I discendenti ebrei della famiglia dei Maccabei, divennero una dinastia che governò la terra d’Israele nel II secolo a.C. La guerra scoppiò per la difesa dell’indipendenza religiosa dell’ebraismo, contro l’imposizione forzata dell’ellenismo; portò alla restaurazione del Tempio e all’insediamento di una monarchia ebraica di stirpe sacerdotale. La festa che si celebra oggi, privilegia soprattutto gli aspetti religiosi, con il rito dell’accensione di una lampada particolare a otto braccia, iniziando con un lume il primo giorno e poi ogni giorno aggiungendone un altro fino ad otto.

Un mese esatto prima della Pasqua, si celebra per un giorno la ricorrenza più allegra del calendario ebraico: la festa di Purìm, termine ebraico che si traduce in lingua corrente “le sorti". Essa è memoria storica di un episodio narrato nel libro biblico di Ester: lo scampato pericolo da un tentativo di sterminio del popolo ebraico, ordito dal dignitario persiano Aman, durante il regno del re Assuero. Il rito essenziale della festa, consiste nella lettura pubblica della rotolo (meghillà in ebraico) di Ester; l’evento si festeggia con la famiglia e gli amici, banchettando, indossando maschere, scambiandosi doni e facendo offerte speciali ai più bisognosi.

Il calendario liturgico, si completa anche celebrazioni austere, accompagnate da digiuni, a ricordo di alcune sciagure storiche che hanno colpito il popolo ebraico. In particolare si segnala il giorno del 9 di Av (Luglio - Agosto), a cui accennavamo all’inizio della nostra trattazione, nel quale si fa pubblico lutto per ricordare la distruzione dei due Templi di Gerusalemme (quello distrutto dai Babilonesi, nel 586 a.C. e quello distrutto nello stesso giorno dai Romani nel 70 dell’era cristiana) e altre calamità nazionali occorse al popolo ebraico, nell’arco della sua storia. In tale occasione si legge il libro biblico delle Lamentazioni di Geremia, e numerosi altri componimenti di circostanza.

In ultimo, sul versante opposto, in molte comunità ebraiche del mondo è prevalso l’uso di considerare in qualche modo come una giornata festiva la ricorrenza civile del 5 di Yiar che ricorda la proclamazione di indipendenza dello Stato d’ Israele da parte di David Ben Gurion, il 14 maggio del 1948.

 

SERVIZIO AL TEMPIO DI GERUSALEMME

 

SECONDA PARTE

 

In questa seconda parte, verranno illustrate le complesse modalità con cui si celebravano i servizi religiosi al Tempio di Gerusalemme. Nel loro svolgimento, i sacerdoti rivestivano un ruolo talmente centrale, da vedere il loro impegno articolarsi tra scrupolosi dettagli, circa tutte le norme stabilite nella legge mosaica.

 

1) ORGANIZZAZIONE DEI SACERDOTI

 

Come abbiamo già letto, tutta la nazione di Israele si riuniva a Gerusalemme tre volte all'anno, per celebrare le feste di Pesach, Shavuot e Succoth. Abbiamo compreso che il Rosh Hashanà, capodanno ebraico, e lo Yom Kippur, giorno dell'espiazione, erano ugualmente osservati con riti speciali e con offerte nel Tempio. Ma nei restanti giorni dell'anno, cosa accadeva nel luogo sacro, dove si riteneva che risiedesse la presenza di Dio? Con quali modalità si svolgeva il servizio sacerdotale? Come erano organizzati i sacerdoti e quali erano i loro compiti particolari? Quale era il ruolo dei leviti? Cercheremo di scoprirlo procedendo con ordine.

Iniziamo col dire che i responsabili del servizio quotidiano svolto presso il Tempio, erano i Cohanim (sacerdoti, plurale di Cohen), suddivisi in 24 classi, composte da uomini che provenivano da tutto Israele. Questa istituzione voluta da Davide e dal figlio Salomone, proseguì fino alla cattività babilonese del 587 a.C. Terminato l’esilio, solo quattro famiglie sacerdotali fecero ritorno a Gerusalemme e precisamente le casate di Jedaiah, Immer, Pashur e Harim. La classe di Jedaiah aveva la priorità, perché era composta da membri della famiglia dei sommi sacerdoti, discendenti di Zadoc.

Tuttavia, per ripristinare il numero iniziale delle 24 classi, a ciascuna delle quattro famiglie appena menzionate, fu chiesto  di tirare a sorte i nominativi di altri clan, per compensare quelli che avevano deciso di rimanere in Babilonia. In tal modo si sarebbe potuto nuovamente formare il numero originario, a patto di conservare gli antichi nomi. Ad esempio, Zaccaria, padre del Battista, in realtà non apparteneva al nucleo familiare di Abija, rimasto in Babilonia, ma alla casata di Abia che condivideva con la prima, solo la somiglianza del nome. Il numero di sacerdoti in servizio a Gerusalemme era notevole; essi venivano alloggiati nell'affollato quartiere sacerdotale della città santa chiamato Ophel, localizzato dove un tempo si trovava la fortezza gebusea, divenuta più avanti la città di Davide. Stando alla tradizione giudaica, in quel sobborgo, risiedeva permanentemente quasi la metà dei membri di ciascuna delle 24 classi sacerdotali, mentre il restante era sparso per tutto il paese d'Israele.

I due concetti fondamentali alla base del sacerdozio erano la riconciliazione e la mediazione: la prima veniva espressa tramite sacrifici espiatori, la seconda dal suo ministero basato sull'intercessione. Lo stesso termine ebraico “Cohen”, nel suo significato primario indica "colui che si adopera a favore di un altro, che intercede per la sua causa".

La durata delle funzioni sacre spettanti a ogni turno era di una settimana, da sabato a sabato. Durante quei sette giorni, i componenti della turnazione in carica erano responsabili di tutte le funzioni quotidiane nel Tempio. I diversi sacerdoti si alternavano durante l’intero anno, secondo uno schema che può essere paragonato alla chiamata alle armi. Ognuno giungeva a Gerusalemme per il proprio periodo prestabilito. Ciascuno dei 24 gruppi era a sua volta diviso in 6 clan, o rami familiari. La gestione delle funzioni sacerdotali per ogni giorno della settimana, era affidata a un gruppo familiare mentre il sabato officiava l’intera casata nel suo insieme. Essere un discendente di Aaronne e svolgere il ruolo sacerdotale, costituiva un grande onore: tutti i sacerdoti si mostravano estremamente diligenti nella loro missione, e ciascuno attendeva con grande desiderio, l'opportunità di poter condurre il servizio nel Tempio. Vi era una tale quantità di compiti giornalieri da assolvere, che era impossibile per ognuno adempierli tutti in una volta; quindi, per dare ad ogni sacerdote l’opportunità di celebrare questa santa chiamata, era stato escogitato un sistema attraverso il quale coloro che desideravano servire nel Tempio, avevano una buona possibilità di essere designati.

Come venivano scelti i sacerdoti? Mediante speciali sorteggi, effettuati quotidianamente nel Tempio. L’insieme dei sacerdoti del clan familiare al servizio in un determinato giorno, partecipava all’ estrazione condotta da un preposto a cui era affidato tale incarico. Se tutti i compiti venivano assegnati già con un solo sorteggio, si preferiva radunare nuovamente i sacerdoti, praticando 4 sorteggi separati.

Tutti i sacerdoti desiderosi di compiere il primo servizio del giorno, si alzavano di buon mattino e si purificavano, immergendosi nella Mikveh, una speciale vasca nella quale l'acqua era raccolta in maniera naturale, alimentata da una sorgente o da acqua piovana, della capacità di circa 340 litri. Dopo essersi purificati, i sacerdoti rientravano nei loro alloggi e aspettavano l'arrivo del responsabile del sorteggio. Di solito, egli giungeva prima dell'alba ed il suo arrivo era preavvertito da un annuncio la cui voce tutti i giorni echeggiava così negli spazi del Tempio: "Sacerdoti, levatevi e date inizio alle vostre funzioni! Leviti, al vostro piazzale! Uomini israeliti, ai vostri posti!".

Il responsabile del sorteggio, quindi, bussava alla porta dell'appartamento del Fuoco, in cui si trovavano i sacerdoti. Quando veniva aperta la porta, egli li convocava dicendo: "Chiunque si è immerso, venga per tirare le sorti!", in modo da poter stabilire chi dovesse svolgere il primo servizio della giornata.

Dopodiché, i sacerdoti si dirigevano verso l'appartamento della Pietra Levigata, dove avevano luogo le estrazioni. Era lo stesso alloggio che ospitava le riunioni del Sinedrio. Una parte di esso si estendeva nella zona santa e l'altra parte al di fuori. La legge esigeva che il sorteggio si svolgesse all'interno di quell'area. Qui i sacerdoti si radunavano formando un ampio cerchio, al centro del quale vi era il preposto. L'estrazione avveniva con i partecipanti l'uno di fronte all'altro. A quel punto, uno dei sacerdoti si toglieva il copricapo: significava che il sorteggio poteva iniziare. Questa era un'altra ragione per la quale l'estrazione a sorte avveniva all'esterno, perché sarebbe stato considerato un sacrilegio restare nel cortile del Tempio col capo scoperto. Veniva scelto e concordato un quorum sostanzialmente più alto del numero dei presenti. Allora il responsabile diceva a ciascuno dei sacerdoti di alzare un dito. Poi veniva contato ciascun dito alzato, e questo perché la Bibbia proibisce di contare le persone effettive, in ossequio a Esodo 30:12 in cui è scritto: “Quando farai il conto dei figli d'Israele, facendo il censimento, ognuno di essi darà al SIGNORE il riscatto della propria vita, quando saranno contati; perché non siano colpiti da qualche piaga, quando ne farai il censimento”.

Ecco perché il censimento veniva condotto sulla base della donazione di mezzo siclo, cominciando da colui che si era tolto il copricapo e continuando lungo il cerchio, fino a quando non veniva raggiunto il numero prefissato. Il sacerdote indicato dal numero, otteneva il diritto di compiere l'ufficio sacro. Concluso il primo sorteggio e segnalato il prescelto, il preposto, servendosi della chiave che gli era stata data dalla famiglia sacerdotale più anziana, apriva la porta del Tempio. Prospiciente all'ingresso dell'appartamento del Fuoco, c'era un passaggio più piccolo che conduceva nel cortile. L'ufficiale, quindi, apriva tale varco per accedere nel cortile, con tutti i sacerdoti al seguito.

Per la cosiddetta ronda dell’alba, il gruppo si immetteva nel cortile, dividendosi in due schieramenti, col compito di controllare che nel Tempio tutto andasse bene, e che i 93 vasi sacri necessari a compiere le funzioni del servizio divino, fossero al loro posto. Ogni ronda sacerdotale, era guidata da un sacerdote con una torcia, perché il sole ancora non era sorto ed era difficile scorgere la luce del nuovo giorno. Nelle notti di sabato non si usavano  torce; c'erano delle candele, che ardevano da prima dell'inizio del sabato, per illuminare il percorso, così come racconta il rabbino Maimonide (1138-1204) nelle sue opere.

Tornando ai sacerdoti, un gruppo si dirigeva verso oriente, attraversando i lati nord e est della balaustra, mentre l'altro gruppo andava in direzione opposta, attraversando una piccola parte dei lati settentrionali, occidentali e meridionali, compresa una parte della zona orientale del Tempio. Le due ronde di sacerdoti, continuavano separatamente la loro ispezione fino ad incrociarsi presso l'appartamento della preparazione dell'oblazione. Presso tale luogo, venivano impastate e cotte le quotidiane offerte di farina per il Sommo Sacerdote. Il gruppo che procedeva verso oriente, arrivando per primo all'appartamento, aspettava l'arrivo della seconda ronda, che giungendo da occidente, aveva un percorso più lungo da coprire.

Riunitisi nuovamente al punto di partenza, i due gruppi si salutavano con le parole "Pace! Tutto è tranquillo!". Questo era il segnale che ogni cosa procedeva senza imprevisti. Verso le 9 del mattino, i sacerdoti prescelti aprivano le porte e suonavano le trombe d'argento, per annunciare l'inizio del servizio mattutino.

Per quanto concerne l’olocausto dell’agnello, la parola ebraica per indicarlo è “Tamid”, che sottende un sacrificio scandito con regolarità in tempi prestabiliti. Per celebrarlo occorreva un agnello di un anno, farina, olio e vino. Fuori dal Santo, nell'atrio dei sacerdoti, venivano offerti giorno e notte i sacrifici del popolo. Si è calcolato che durante la Pasqua, fossero sacrificati circa 18.000 mila agnelli, a fronte di una affluenza di pellegrini a Gerusalemme, di circa 125.000 persone.

Il Tempio comprendeva una immensa spianata, lunga quasi mezzo chilometro e larga circa 300 metri, ottenuta con terreno di riporto, sostenuta da enormi muraglioni e circondata da porticati particolarmente sontuosi: il portico reale a sud, era formato da 4 file di 42 colonne e quello detto di Salomone a est, aveva 268 colonne alte 11 metri.

Quest'area aperta a tutti si chiamava Cortile dei Gentili, essendo una spianata immensa in cui i non ebrei  potevano avervi accesso. Al di sotto dei porticati, i vari rabbini riunivano i gruppi di ascoltatori e discepoli. Tuttavia, il Tempio era anche centro della vita pubblica: i cambiavalute vi svolgevano le normali operazioni commerciali, come verificare il valore dei beni, conio e peso; spesso le monete venivano raschiate sui bordi per recuperare metallo prezioso.

Il cambio delle valute, si rendeva necessario perché la tassa del Tempio non poteva essere pagata con monete greche o romane, in quanto considerate impure. Quindi le offerte pecuniarie, erano erogate solo tramite monete ebraiche. C'erano anche venditori di piccoli animali, offerti da persone di umili condizioni. Gesù rovesciò i banchi di commercio e scambio, perché la casa di Dio non diventasse un luogo di mercato (Giovanni 2:14-16). Sempre in relazione all’architettura del Tempio, una balaustra delimitava la zona sacra riservata ai soli ebrei: è interessante sapere che sono state ritrovate iscrizioni in più lingue, con le quali si avvertivano gli stranieri di non oltrepassare quella soglia, pena la morte. Il primo cortile interno, era riservato alle donne ebree, mentre un secondo cortile era accessibile agli uomini d'Israele. Infine, la parte più vicina all'altare era riservata ai sacerdoti. Il santuario vero e proprio era costituito dall'edificio sacro centrale, comprendente un atrio e due sale riservate al culto più solenne alla presenza del Signore. Davanti al Santuario, al centro del cortile che era riservato ai sacerdoti, si trovava l'altare dei sacrifici: su di esso si offriva mattina e sera il già menzionato Tamid, oltre a tutti gli altri sacrifici. Nella prima sala, vi era il Santo, con l'altare dei profumi ed un braciere sul quale ardeva l'incenso mattino e sera (Luca 1:8-9). Sarebbe stato compito dei leviti, preparare e custodire ogni anno 368 libbre di tale resina. C'era anche l'altare dei Pani della Presentazione offerti ogni sabato, e il candeliere a sette braccia che è diventato simbolo della fede ebraica. Separata da un pesante velo che nessuno poteva oltrepassare, si trovava la parte più interna chiamata il Santo dei Santi, dimora del Signore: qui, sul Propiziatorio, ovvero sul coperchio d'oro dell'Arca, Dio simbolicamente "posava i suoi piedi", per parlare al popolo e perdonare i suoi peccati. In seguito alla scomparsa dell'Arca dell'Alleanza, il Santo dei Santi rimase del tutto vuoto e buio, pur continuando ad essere venerato come luogo della presenza del Signore. In esso, solo il Sommo Sacerdote vi poteva entrare nel giorno dell'Espiazione, al fine di chiedere perdono per i peccati commessi dal popolo d'Israele.

 

2)LA RIMOZIONE  DELLE CENERI

 

Il primo sorteggio giornaliero, decideva quale sacerdote dovesse essere chiamato a svolgere il compito con il quale, si iniziava la giornata delle attività presso il Tempio: il primo lavoro da compiere, era costituito dalla rimozione delle ceneri che si trovavano ancora sull’altare dalla sera prima.

L'altare era il cuore stesso del Tempio, ed intorno ad esso ruotava tutto il servizio divino. Le offerte giornaliere e quelle supplementari, i sacrifici individuali e quelli collettivi, tutte le principali cerimonie che si svolgevano nel Tempio, come il sacrificio della Pasqua, l'offerta delle primizie nello Shavuot  e anche la festa del Succoth, avevano luogo nelle immediate vicinanze dell'altare. La sua esatta posizione era stata stabilita con estrema precisione fin dai tempi antichi. Nel primo Tempio, sia  l'altare edificato da Salomone che quello del secondo Tempio, erano entrambi eretti sul medesimo sito, il monte Moriah, dove Abramo edificò un altare sul quale legò Isacco credendo di doverlo offrirle a Dio. Tale ubicazione, sarebbe coincisa con il luogo del Tempio di Dio. Tornando all’altare, la sua  forma  era rappresentata da un perfetto quadrato: raggiungeva i 5 metri di altezza ed era largo circa 16 metri. Era costituito da due corpi principali: l'altare e la rampa di salita, entrambi realizzati in terra e pietre levigate, che venivano tinteggiate di bianco due volte all'anno. Alla sommità dell'altare, ai quattro angoli, si trovavano quattro cassette vuote, le quali formavano piccole sporgenze chiamate "corni". Tali corni misuravano mezzo metro quadrato ed erano alti 5 palmi ciascuno.

Lungo il perimetro dell'altare, correva un bordo rialzato ad uso dei sacerdoti officianti, che normalmente giravano sempre intorno ad esso partendo da destra ed allontanandosene da sinistra. Nelle vicinanze era ammassata una grande quantità di sale da cospargere sulle offerte; il sale veniva anche sparso lungo il percorso, per impedire che i sacerdoti, i quali camminavano a piedi nudi, scivolassero. Sulla spianata, in cima all'altare, bruciavano tre cataste di legna. La più grande era destinata a ricevere tutti i sacrifici, la seconda produceva il carbone necessario per l'altare dell'incenso situato all'interno del Tempio, e la terza costituiva il fuoco perpetuo, che doveva ardere costantemente sull'altare (Levitico 6:5). Le ceneri delle combustioni accumulatesi nel bel mezzo dell'altare, venivano portate in un luogo esterno al Tempio, chiamato “il luogo delle ceneri" (Levitico 6:3-4).

In questa zona, il sacerdote veniva avvertito con le seguenti parole: "Stai attento! Non toccare il vaso prima di esserti purificato mani e piedi con l'acqua della conca!". In tal senso, essi accennavano alla paletta argentata con la quale il sacerdote di turno, doveva rimuovere le ceneri. Lo scopo era rammentargli di non fare nulla finché non si fosse purificato. Benché già lavato nella vasca rituale, gli era ancora proibito iniziare qualunque servizio nel Tempio (perfino l'accostarsi all'altare), se non si fosse santificato mani e piedi (Esodo 30:20-21). Anche se il sacerdote era scrupoloso  e perfettamente consapevole della necessità di essere santificato, senza che nessuno glielo ricordasse, i suoi compagni avevano l'obbligo di avvertirlo, poiché saliva sull'altare da solo e avrebbe potuto dimenticare questo aspetto della sua officiatura.

Gli altri sacerdoti gli ricordavano altresì, che la speciale pala per la rimozione delle ceneri la cui posizione ed efficienza era stata già verificata durante la ronda dell'alba, doveva essere conservata in un angolo, tra il lato occidentale della rampa e il lato sud dell'altare.

Dopo essere stato avvertito, il sacerdote designato si dirigeva verso l'interno del Tempio. Non poteva essere accompagnato da nessuno, poiché sia l'ingresso all'area posta tra l'atrio e l'altare che la sua rampa, erano interdetti a chiunque non fosse incaricato di compiere il servizio. L'unica luce disponibile era quella del fuoco che bruciava sull'altare, per cui, una volta entrato nell'atrio, il sacerdote scompariva dalla vista dei suoi compagni, rimasti nella zona esterna del cortile. Il sacerdote, poi, si avvicinava alla conca di rame, collocata nella zona occidentale dell'altare, per purificarsi mani e piedi. Poiché la rampa e l'altare, come già scritto, erano alti circa 5 metri, il sacerdote non veniva notato da nessuno e questo interrompersi dei contatti tra lui e i suoi assistenti, durava fino a che raggiungeva il lavacro rituale (Esodo 30:18).

Gli altri sacerdoti riuscivano a capire la sua posizione, pur non vedendolo, dal rumore della grande carrucola a forma di ruota, per mezzo della quale il lavacro, nella notte, veniva calato in un pozzo per poi farlo riemergere la mattina seguente, pieno d'acqua. Il grande vaso aveva la vaga forma di bricco, ed era in effetti il primo utensile che i sacerdoti toccavano ogni giorno, in quanto obbligati a lavarsi mani e piedi prima di dare inizio a una qualsiasi attività templare. Il modello originale, quello costruito per il tabernacolo del deserto al tempo di Mosè, includeva due rubinetti per l’erogazione dell'acqua.

Secondo Esodo 30:18, la conca nella quale si purificavano i sacerdoti, doveva essere esclusivamente in rame. Quando gli altri sacerdoti udivano il cigolare del meccanismo che sollevava la conca riempitasi d'acqua, esclamavano: "E' giunto il tempo". Era il segnale che anche loro dovevano prepararsi per compiere la propria mansione. Dopo che il sacerdote officiante si era santificato, prendeva la paletta argentata e saliva per la rampa verso la piattaforma in cima all'altare dove, servendosi dell'utensile, raccoglieva una piccola parte di carboni già abbastanza consumati dal fuoco. La gran parte delle ceneri rimaneva sull'altare, perché era sufficiente la rimozione di una minima parte di esse. Tuttavia, questo gesto predisponeva simbolicamente l'altare, a un nuovo giorno di servizio nel Tempio.

Discendendo, il sacerdote si girava verso settentrione camminando verso il lato est della rampa per circa 5 metri.  In quel punto esatto versava il contenuto della paletta per terra, formando una piccola pila nel luogo delle ceneri (Levitico 6:3), a circa 3 palmi dalla rampa di ascesa verso l'altare. Con tale atto, il sacerdote aveva portato a termine il primo compito sacro del servizio nel Tempio, che consisteva per l’appunto, nella rimozione delle ceneri dall'altare. Tolta la cenere,  gli altri sacerdoti potevano dedicarsi alla sua più generale preparazione. Essi dovevano raccogliere con l’ausilio di grandi forconi, tutte le parti sacrificate non bruciatesi durante la notte per spostarle ai lati, essendo proibito farlo dalla sommità dell'altare (1 Samuele 2:14). Poi, il sacerdote incaricato accumulava tutte le ceneri giusto al centro dell'altare, dando luogo a un mucchio a forma di cupola arrotondata e quando le ceneri stesse diventavano troppe, venivano raccolte e portate in un luogo fuori dalla città e sotterrate. Alcune fonti dicono che quest'operazione veniva fatta ogni giorno.

Comunque, nei giorni di festa, quando si offrivano molti sacrifici, il mucchio di cenere veniva lasciato crescere, perché si riteneva opportuno far notare l'effetto visivo, creato dai resti di una grande mole di sacrifici offerti. Dopo l'accumulo delle ceneri, l'altro incarico da assolvere da parte del personale addetto, era quello di consegnare una nuova fornitura di legname, per alimentare i tre roghi sull’altare. I rabbini, avevano deciso che il sacerdote designato dal primo sorteggio, fosse investito anche di altre responsabilità: egli stabiliva, infatti, anche quale dovesse essere la disposizione della legna sull'altare, portando  due piccoli ceppi da aggiungere alle cataste già preparate, per potervi accendere il fuoco (Levitico 6:5).

Qual era il tipo di legname da usare? Si riteneva che, ad eccezione dell'olivo e della vite, tutti i tipi di legno fossero “kosher” (ritualmente puri) e quindi adatti allo scopo. Olivo e vite erano esclusi, poiché bruciando  avrebbero sprigionato molto fumo. In più, tali piante erano fondamentali per la sopravvivenza del popolo giudaico, per i frutti che davano e per i vantaggi che da esse l’edilizia traeva, come legname per abitazioni. Solitamente, venivano utilizzati tre tipi di alberi dall'ottima resa combustibile: il fico, il noce e il pino.

I rami di fico erano usati per la seconda catasta, dalla quale proveniva il fuoco per l'altare d'oro, all'interno del Tempio. Su questo altare veniva bruciato l'incenso ed occuparsi di ciò, restava l'incarico più ambito. Dopo aver sistemato la catasta più grande e quella più piccola, i sacerdoti per poter partecipare al secondo sorteggio, scendevano dall'altare e si dirigevano verso l'appartamento dalla caratteristica pietra levigata, con cui erano realizzate anche altre parti del Tempio.

Il nostro racconto continua e quindi, proseguendo dall'appartamento della pietra levigata, dopo aver disposto le pile di legno in cima all'altare, i sacerdoti si radunavano ancora in presenza dell'incaricato, per partecipare al secondo sorteggio quotidiano, che decideva a chi dovessero essere assegnati gli ulteriori servizi relativi al sacrificio e all'offerta del Tamid. Il responsabile procedeva all'estrazione a sorte per stabilire:

-              il sacerdote che doveva uccidere l’agnello per il sacrificio;

-              il sacerdote che doveva raccoglierne il sangue per spargerlo sull'altare;

-              il sacerdote che doveva rimuovere le ceneri eccessive dall'altare dell'incenso, all'interno del    santuario;

-              il sacerdote che doveva prendersi cura degli stoppini della Menorah, il candelabro a sette bracci, rimuovendo dagli scodellini l’olio usato e la cenere;

-              quale dei sei sacerdoti interessati, doveva portare le parti del sacrificio verso la rampa dell'altare;

-              il sacerdote che doveva portare il fior di farina, con cui accompagnare l'oblazione da offrire sull'altare;

-              il sacerdote che doveva sollevare l'oblazione del Sommo Sacerdote;

-              il sacerdote che doveva spandere l'offerta di libagione del vino.

In tutto, il sorteggio designava tredici sacerdoti secondo questo schema: al sacerdote estratto a sorte, toccava il primo compito, l'uccisione dell’agnello. L'assegnazione dei compiti successivi veniva stabilita in base alla vicinanza dei partecipanti rispetto al primo sacerdote incaricato, in base al concetto di secondo, terzo e così via. Quindi, il primo sacerdote uccideva l'animale da sacrificare, quello immediatamente alla sua destra ne riceveva il sangue, che era veniva raccolto nel vaso apposito affinché fosse sparso sull'altare. Il terzo in successione, riceveva l’ulteriore incarico, cioè quello di rimuovere le ceneri dall'altare dell'incenso, ed il quarto aveva il privilegio di pulire il Menorah.

Adesso esaminiamo passo dopo passo, ciascun aspetto del servizio.

Subito dopo il sorteggio, gli ultimi due sacerdoti menzionati, quello dell'altare e quello dell'incenso,  si affrettavano a prepararsi con gli utensili richiesti, che consistevano in un cestello dorato della capacità di circa 5 litri e mezzo, un contenitore dorato per l'olio a forma di grande calice e due chiavi, queste ultime date al levita portiere di turno.

Ai leviti era affidata la custodia di tutte le porte del Tempio. Erano designati da un preposto chiamato "Ben Gever", incaricato di aprire le porte la mattina e di chiuderle di sera. Si narra che il rumore causato all’apertura delle porte, fosse talmente intenso, da essere percepito fino a Gerico, che si trovava a 25 chilometri di distanza. Queste erano le due chiavi, usate per aprire il grande portone del Santuario. Su entrambi i lati c'erano due piccoli varchi, che dal cosiddetto appartamento del Fuoco conducevano nel cortile. Uno di questi si trovava a nord, sul lato destro delle porte, e una a sud, sulla sinistra. L'apertura a sud non veniva mai aperta e nessun uomo poteva oltrepassarla. Doveva rimanere chiusa, a testimonianza del fatto che solo il Santo poteva varcarla (Ezechiele 44:2).

In tutto questo articolato servizio, erano impegnate anche altre figure:

1.     L’ incaricato agli orari delle celebrazioni, il quale, quando giungeva il momento di iniziare il servizio, gridava: "Sacerdoti, al vostro servizio. Voi leviti, alle vostre panche, a cantare! E voi israeliti, al vostro posto!".

2.    Il responsabile della chiusura delle porte dei cortili, il cui ordine dava il segnale di aprire e chiudere i sette portoni e di far squillare le trombe.

3.    Il responsabile delle guardie, detto anche l'uomo della montagna della casa, che controllava i leviti addetti alla sorveglianza e se ne trovava qualcuno a dormire, lo bastonava e gli incendiava il mantello.

4.     Il responsabile dei coristi, che stabiliva i cantori e i suonatori di tromba.

5.     Il responsabile dei cembali, che selezionava gli strumenti a corda.

6.     Il responsabile del sorteggio, di cui si è già parlato.

7.   L'addetto alle creature volatili, incaricato di procurare le tortore e i piccioni necessari a quelli che offrivano tali donazioni, versandone il ricavato  ai  tesorieri. A motivo della loro condizione, quando Giuseppe e Maria andarono a riscattare Gesù, offrirono tali doni (Levitico 5:7-10).

8.     L'addetto ai sigilli, il quale consegnava una specie di talloncino agli offerenti. Ne erano stati predisposti principalmente quattro tipi, sui quali erano riportate altrettante diverse indicazioni, in base al tipo di offerta: “egel” come offerta del vitello,  “zakar” per una offerta di genere maschile, “gedyyah” per l’offerta di un capretto e “chata” per l’offerta di un peccatore. Le scritte identificative, si usavano nel modo seguente: a chiunque portasse un sacrificio che richiedeva anche una libagione, veniva esaminata l'offerta, per stabilire quale oblazione liquida le andasse associata. Dopo questa fase, veniva rilasciato quello che potremmo definire essere un talloncino, che indicava la natura del sacrificio.

9.     Il responsabile delle libagioni, che provvedeva a dare a ogni offerente l'offerta liquida corrispondente, secondo l’attestazione rilasciata dall'addetto ai sigilli.

10. Il responsabile degli infermi. Era una specie di dottore del Tempio per il quale la legge levitica prevedeva uno speciale compito di diagnosi o avvenuta guarigione, soprattutto nei casi di lebbra.

11. Il responsabile dell'acqua, che si occupava del rifornimento e dello smaltimento idrico. Pare che Nicodemo, menzionato anche nel Talmud, fosse responsabile dell'approvvigionamento idrico del Tempio.

12.            Il responsabile dei pani di presentazione.

13.            L'incaricato della preparazione dell'incenso.

14.            L'addetto alla produzione dei veli.

15.            Il responsabile del confezionamento degli abiti sacerdotali.

Ciascuno dei responsabili, aveva poi altro personale alle proprie dipendenze, scelto appositamente per la corvée giornaliera o permanente: per farla breve, il servizio nel Tempio richiedeva il lavoro di parecchie persone. Se calcoliamo che in tutta la terra di Israele, la popolazione si aggirava intorno al milione di persone, la cifra di 20.000 Cohenim ai quali si associavano i leviti, per un totale di 60.000 persone impiegate annualmente, era davvero notevole. Quindi ogni giorno, prestava servizio al Tempio, una media di 2000 persone. Questi numeri sono proporzionalmente significativi, tenuto conto che la sola Gerusalemme, contava circa 20.000 abitanti entro le mura della città e circa 10.000 fuori di essa.

Si narra nel Talmud, che ci fu una volta in cui i sacerdoti nel Tempio sbagliarono a stabilire l'inizio del giorno. Il sacrificio quotidiano fu offerto troppo presto, violando involontariamente il comando biblico. La Mishna in Yoma 2:2, riferisce che in quell’occasione il cielo era nuvoloso e pertanto la luce della luna, attraversando le nuvole e illuminando il cielo, diede l'impressione che stesse per spuntare l'alba. Il Tamid giornaliero era già stato macellato. Tuttavia, i sacerdoti si resero conto di averlo fatto quando in realtà era ancora notte, e il sacrificio fu annullato.

Memori di questa lezione, il preposto, dopo aver verificato che fosse giunto il tempo giusto per l’offerta del Tamid quotidiano, ordinava ai sacerdoti incaricati: “Portate l’agnello dalla stanza degli agnelli!".

Nel Tempio vi era un locale dedicato, nel quale venivano custoditi gli agnelli sacrificali. Vi erano sempre almeno sei animali, precedentemente controllati e di cui era stata certificata la purezza rituale. Era obbligatorio controllare ciascun animale, quattro giorni prima di sacrificarlo. Tuttavia, anche se l’agnello designato per il sacrificio era già stato verificato, siccome la Legge era tassativa riguardo l’offerta di sacrifici con difetti, dopo essere stato prelevato dal magazzino, veniva ispezionato ancora una volta dal portatore della torcia, per eliminare del tutto il rischio di rendere nullo il sacrificio. L’agnello veniva poi abbeverato, per renderne più facile lo scuoiamento. Anche questa operazione, come tutto ciò che si faceva nel Tempio, era svolta con la massima attenzione.

Quindi, il sacerdote conduceva l’animale nell’area del cortile a nord dell’altare, seguito da sei sacerdoti che avrebbero portato materialmente le parti del sacrificio, sull’altare medesimo. Quest’area del Tempio era appositamente attrezzata allo scopo. Il pavimento era munito di anelli metallici per trattenere l’animale, inoltre vi erano otto piccole colonne in pietra, alla cui sommità si trovavano dei ceppi di legno, degli anelli per favorire la rimozione della pelle e delle tavole di marmo sulle quali venivano apparecchiati i sacrifici. Nel frattempo, altre attività erano svolte da chi era stato scelto dal secondo sorteggio.

Il candelabro rappresentava l’utensile più importante di tutti gli arredi sacri, poiché era il simbolo della luce: i saggi del Talmud, definivano Gerusalemme “la luce del mondo”. Il servizio consisteva nel togliere i residui degli stoppini utilizzati e rifornire di olio i sette lumi, preparando nuovi stoppini da far ardere. Per fare ciò, il sacerdote officiante doveva trovarsi in un punto elevato, in modo da potersi muovere agevolmente. La Menorah era infatti collocata molto in alto. Perciò il sacerdote saliva sui tre gradini posti di fronte al candelabro, come tre erano i versetti biblici che accennano alla “salita” verso la Menorah (Numeri 8:1, 2; Esodo 25:37 e 27:20).

Un ulteriore sacerdote, prendeva il fior di farina che doveva accompagnare il sacrificio quotidiano. Un altro, il dodicesimo nell’estrazione, riceveva il diritto di portare l’oblazione personale del Cohen HaGadol sull’altare, consistente in circa 2,5 litri di farina preparata con olio, in una pentola. Così si ottenevano dodici pani. Anche se questa era l’offerta personale del Sommo Sacerdote, simbolicamente era considerata come proveniente dalla comunità intera. Veniva portata ogni giorno sull’altare, metà la mattina e metà la sera. Infine, l’ultimo sacerdote il cui nome era stato estratto, riceveva il compito di portare un quarto di hin, ovvero poco più di un litro di vino, il quale veniva sparso in offerta sull’altare come accompagnamento del sacrificio quotidiano.

Dopo aver ottemperato ai propri doveri, i sacerdoti ritornavano nella stanza della pietra levigata, per recitare le preghiere mattutine. Ritornando in quel luogo, il responsabile del sorteggio avvertiva i sacerdoti che era il momento di recitare la preghiera dell’ “Ascolta, o Israele”, insieme alla relativa benedizione e alla ripetizione dei dieci comandamenti, massima espressione della Torah. Poi i sacerdoti alzavano in alto le mani, e impartivano la benedizione sacerdotale sul popolo radunato nel Tempio. Il sabato veniva aggiunta una benedizione supplementare, durante la quale i sacerdoti uscenti  si avvicendavano con quelli entranti, dicendosi: “Possa Colui che fa abitare il suo Nome in questa Casa, far si che l’amore, la fratellanza, la pace e l’amicizia abitino tra voi”. La squadra sacerdotale celebrava ancora il Tamid del mattino, lasciando alla nuova classe settimanale, il sacrificio pomeridiano.

Il sorteggio per determinare chi avrebbe potuto celebrare l'offerta dell'incenso (Esodo 30:34), era vissuto con grande emozione, perché secondo la tradizione giudaica, rappresentava il servizio che Dio gradiva di più. L'incenso offerto nel Tempio era composto di undici ingredienti diversi, ma la Bibbia ne nomina solo quattro. Il nome delle altre sette spezie ci è stato trasmesso dalla tradizione orale del Talmud. Il metodo per preparare questa particolare resina, costituiva una ricetta i cui contenuti venivano  gelosamente tramandati di generazione in generazione da una famiglia particolare, il clan degli Avtinas.

Il Sinedrio aveva incaricato ufficialmente gli Avtinias alla preparazione dell'incenso, della cui produzione era esclusivamente  responsabile. Ciò avveniva nella stanza del Tempio che prendeva il nome da tale famiglia. Diversamente dagli altri servizi nel Tempio, era stabilito che ogni sacerdote potesse celebrare l'offerta dell'incenso solo una volta nella sua vita. Il responsabile del sorteggio gridava: "Soltanto i nuovi! Tutti quelli che non hanno ancora offerto l'incenso si facciano avanti per tirare le sorti!". Come abbiamo già visto, questo aspetto ci fa rilevare quanto alto fosse il numero di sacerdoti ammessi al servizio nel Tempio: in tanti anni, la sorte non è mai toccata allo stesso sacerdote più di una volta!

I sacrifici venivano consumati dalla combustione dell'altare. Qui si stabiliva chi dovesse portare le parti del sacrificio dalla rampa dell'altare fino alla sommità, dove le offerte venivano consumate dal fuoco. In realtà, i sei sacerdoti scelti dal secondo sorteggio depositavano i pezzi dell'animale sulla parte bassa della rampa, dal lato orientale. Il sacerdote designato dalla quarta estrazione, prendeva materialmente le parti e le portava fino al fuoco dell'altare, versandovi sopra anche le libagioni. I sacerdoti che giungevano di buon mattino, già vestiti con gli abiti sacerdotali per partecipare ai sorteggi, potevano immediatamente eseguire il compito per cui erano stati estratti a sorte. Al termine dell'ultima estrazione, tutti quelli che non erano stati sorteggiati si toglievano le vesti cerimoniali per consegnarle al responsabile degli indumenti, al quale spettava il compito di conservare il tutto.  In un modo un po’ laborioso, i sacerdoti si toglievano gli abiti consacrati lasciandosi le brache, sulle quali indossavano i vestiti ordinari, dopodiché si toglievano anche i pantaloni dal di sotto, sostituendoli con le brache di tutti i giorni. In questo modo le loro parti intime non venivano mai esposte. Gli abiti sacri erano riposti in una sorta di guardaroba, destinato al vestiario dei membri di ciascun turno. C'era il ripostiglio per le brache, quello per i  copricapi e via di seguito, in modo da ottenere un certo ordine. Il sacerdote che avrebbe dovuto offrire l'incenso, utilizzava gli utensili speciali per tale servizio, cioè un grande cucchiaio dorato e un vaso più piccolo, pieno di incenso fino all'orlo e messo in un vaso più grande, per impedirne la fuoriuscita.

Questo era anche il turno di chi aveva ricevuto il compito della paletta, con la quale portava una quantità di carboni sull'altare all’interno del Santuario, per far bruciare l'incenso. I due sacerdoti, addetti l’uno all’offerta  dell’incenso e l’altro al trasporto  della paletta, si dirigevano poi verso il Santuario. Tuttavia, prima di raggiungere il luogo, fra la sala e l'altare, uno di loro prendeva un attrezzo chiamato “Magrepha” (arnese a forma di rastrello, usato per ammucchiare le ceneri e toglierle dall'altare) e lo gettava a terra! Secondo la tradizione della Mishna (Tamid, 5:6), "il suono prodotto dalla Magrepha caduta a terra era così assordante che, in quel momento, nell'intera città di Gerusalemme, nessuno riusciva a sentire il proprio amico che parlava!". Gettare la Magrepha a terra, simboleggiava un segnale che indicava  tre scopi:

1.     Quando i sacerdoti dall’esterno del cortile sentivano il rumore, sapevano che i loro colleghi all'interno stavano per inginocchiarsi davanti alla presenza di Dio, e quindi anche loro si affettavano a fare la stessa cosa.

2.     Nel momento in cui il suono era udito dai leviti, sapevano che avrebbero dovuto entrare nel cortile, per iniziare il servizio del canto quotidiano, e quindi correvano anche loro a unirsi ai compagni.

3.     Infine, quando il suono era avvertito dal capo dell'Assemblea, egli separava i sacerdoti diventati impuri riunendoli tutti insieme nella Porta Orientale. Ciò permetteva a ciascuno, di vedere che i sacerdoti impuri non stavano servendo nel Tempio, affinché nessuno sospettasse che avessero avuto qualche altra ragione per non partecipare al servizio.

A questo punto, i due sacerdoti si dirigevano all'edificio del Tempio, salendo i dodici gradini, preceduti da altri due sacerdoti, ovvero quello che aveva tolto le ceneri dall'altare dell'incenso, e quello che aveva ripulito la Menorah. Il primo ad entrare, era il sacerdote che rimuoveva le ceneri. Usando i bordi della paletta, stendeva uniformemente i carboni sull'altare, perché l'incenso bruciasse meglio; prendeva il contenitore lasciato precedentemente in quel luogo, si prostrava e usciva, avendo concluso il suo compito. Seguiva l'altro sacerdote, addetto alla Menorah: egli entrava e se trovava le due candele a oriente ancora accese, spegneva la fiamma più esterna, la riempiva d'olio, ne sostituiva gli stoppini, per poi  riaccenderla. Non spegneva invece la fiamma a occidente, la seconda dall'estremità, che alimentava il fuoco perpetuo. Se avesse trovato spenta la candela a occidente, avrebbe ripulito la lampada, riempiendola con olio e sostituendone lo stoppino, ed infine riaccendendola. Dopodiché, avrebbe preso il contenitore con gli scarti della Menorah, lasciato in precedenza sul secondo gradino, si sarebbe prostrato prima di allontanarsi dal Santuario. Subito dopo, il sacerdote che aveva compiuto il servizio dell'incenso, entrava nel Santuario insieme ad un assistente, per rimuovere il vaso piccolo pieno d'incenso; tale vaso veniva consegnato all’assistente, il quale doveva ricordarsi di mettere un po' d'incenso nelle palme del sacerdote. Come abbiamo detto prima, offrire l’incenso era un privilegio assegnato una sola volta nella vita di ciascun sacerdote, ecco perché l'officiante non aveva una precedente esperienza.

Al termine,  i sacerdoti che avevano concluso i loro servizi sacri nel Santuario, rimanevano sui dodici gradini che conducevano in discesa verso lo spazio di fronte all'altare. Quelli che avevano svolto il servizio delle ceneri, degli stoppini della Menorah, della paletta e dell'incenso, si mettevano alla destra degli altri sacerdoti che avevano portato le parti dell'agnello sacrificale, in cima all'altare. Ciascuno manteneva in mano l'attrezzo che aveva usato durante il rispettivo servizio. Infine, tutti deponevano a terra gli utensili, stando di fronte all'assemblea e, girandosi verso il popolo radunato nel cortile, distendevano le mani per recitare la benedizione sacerdotale: "Il Signore ti benedica e ti protegga!  Il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio!  Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace! Così metteranno il mio nome sui figli d'Israele e io li benedirò" (Numeri 6:24-27).

 

3) IL SERVIZIO DI GUARDIA

 

Vi erano tre postazioni in cui i sacerdoti montavano di guardia. Era fatto obbligo ai leviti d’essere disponibili a svolgere il servizio del Tempio, senza occuparsi di nessuna altra attività. Alcuni facevano la guardia al Tempio, altri erano i portinai che aprivano gli ingressi all'inizio del servizio quotidiano, per chiuderle alla fine del giorno (Numeri 18:4).

I turni di guardia avevano lo scopo di esaltare l'onore e la dignità del Santuario. Nessuno infatti si aspetterebbe di trovare il palazzo di un re, senza una guardia d'onore. Alcuni studiosi affermano che la turnazione venisse garantita ventiquattro ore su ventiquattro, ma generalmente si ritiene che il Tempio fosse controllato solo di notte. Nel complesso, la sorveglianza veniva effettuata in ventiquattro turni. Di questi, ventuno erano assicurati dai leviti e tre dai sacerdoti. Le tre postazioni in cui i sacerdoti montavano di guardia, erano ubicate presso la camera di Avtinas, la camera della Favilla e il luogo del Fuoco. Le prime due erano strutture costruite sul lato del cortile, somiglianti a soffitte abitabili.

Nella camera degli Avtinas, come abbiamo visto, veniva preparato l'incenso da offrire sull'altare d'oro all’interno del Tempio. Secondo le descrizioni contenute nel Talmud, questo locale era situato sul lato sud del cortile, direttamente al di sopra della porta delle Acque, chiamata così perché attraverso di essa veniva portata al Tempio la brocca dorata, con l'acqua della piscina di Siloe per la festa delle Capanne.

La camera della Favilla si trovava nella parte nord del cortile. Qui, veniva tenuto acceso un piccolo braciere per alimentare il fuoco che ardeva perennemente sopra l'altare. I posti di guardia della camera di Avtinas e della camera della Favilla, erano presidiati da giovani sacerdoti che non avevano ancora raggiunto l'età per poter officiare le funzioni nel Tempio. Anche  il luogo del Fuoco era ubicato sul lato nord, a est della camera della Favilla. Si trattava di un vano molto grande, coperto da un tetto a cupola con un grande fuoco tenuto acceso per tutto il tempo. Il luogo del Fuoco ospitava anche il dormitorio per i sacerdoti in servizio. I più giovani dormivano sul pavimento, mentre i sacerdoti più anziani riposavano su appositi letti di pietra, scavati nelle pareti delle varie camere. Dal momento che ogni clan familiare, aveva la competenza esclusiva per il Tempio in un determinato giorno di servizio, gli anziani in questa sala custodivano le chiavi delle porte del Tempio. Nel luogo del Fuoco, era predisposta un'apertura nel pavimento che misurava circa mezzo metro quadrato. Essa era ricoperta da una lastra di marmo, che poteva essere spostata tirando un apposito anello di metallo. In quell'apertura venivano custodite le chiavi.

I saggi della Mishna, offrono una vivida descrizione della routine serale nel Tempio, dei turni di guardia e del modo in cui venivano effettuati. Come già detto, ogni notte il responsabile dei drappelli di guardia, ispezionava ciascuna singola sentinella, impugnando una fiaccola ardente per essere riconosciuto. Se incontrava un guardiano che non si alzava davanti a lui, gli gridava "Pace a te!". Se non riceveva risposta, era evidente che il guardiano si fosse addormentato. Allora il levita assopito veniva picchiato dal responsabile con un bastone. Il sovrintendente alla vigilanza era autorizzato anche a dare fuoco al mantello della sentinella indisciplinata, come punizione per non aver effettuato correttamente il suo dovere.

 

4) IL CANTO

 

I leviti erano i cantori del Tempio. essi si raccoglievano in cima alla piattaforma situata nel cortile di Israele, verso l'altare esterno, appena dentro le porte di Nicanore, per cantare un inno speciale per quel determinato giorno. Durante le feste mosaiche e nel novilunio, venivano cantati una svariata quantità di brani. 

Per molti versi, i canti dei leviti nel Tempio erano importanti quanto lo stesso servizio sacerdotale dei sacrifici, poiché l'uno non poteva procedere senza l'altro. La tradizione orale ci ha tramandato l'elenco dei canti eseguiti ogni giorno nell'edificio sacro, e vari commentatori hanno spiegato alcuni dei collegamenti che si possono percepire tra questi inni e i giorni della settimana.

Ad esempio, nel primo giorno della settimana, si cantava il Salmo 24 che comincia con "Al Signore appartiene la terra e tutto quel che è in essa". Era il giorno in cui Dio aveva creato cielo e la terra per se stesso, stabilendo la propria sovranità sul mondo. Nel secondo giorno della settimana, i leviti cantavano il Salmo 48, "Grande è il Signore e degno di lode nella città del nostro Dio, sul suo monte santo".  In questo giorno furono divise le acque superiori e le acque inferiori dal firmamento celeste (Genesi 1:6-7).

Nel terzo giorno della settimana era la volta del Salmo 82, "Dio sta nell'assemblea divina; egli giudica in mezzo agli dèi". Era il giorno in cui Dio aveva fatto emergere la terra asciutta. Il quarto giorno della settimana si cantava il Salmo 94, che comincia con "Dio delle vendette, o Signore, Dio delle vendette, mòstrati nel tuo fulgore!" Era il giorno in cui vennero creati il sole, la luna e le stelle. Dio castiga gli idolatri che adorano i corpi celesti, come se fossero degli dèi.

In occasione del quinto giorno veniva eseguito il Salmo 81, "Cantate con gioia a Dio, nostra forza; mandate grida di esultanza al Dio di Giacobbe". In questo giorno furono creati gli esseri viventi.

Il sesto giorno, cantavano il Salmo 93, "Il Signore regna; egli s'è rivestito di maestà". Era il coronamento, l'ultimo dei sei giorni della creazione. Era stato creato l'uomo, l'unico che può riconoscere la vera grandezza di Dio. In tutta la creazione, solo l'uomo ha la capacità di capire il dominio del Creatore e di accettarlo quale proprio re.

Il sabato i leviti cantavano il Salmo 92. I saggi di Israele insegnavano che questo salmo è un canto per il mondo futuro perfezionato, "il giorno che è completa tranquillità sabatica, per la vita eterna".

Secondo la tradizione, il secondo Tempio così come avvenne per il primo, fu distrutto a conclusione dello Shabbat del 9 Av, cioè in una notte di sabato. Sia Giuseppe Flavio che gli scritti della tradizione ebraica, narrano che nonostante le fiamme della distruzione infuriassero tutto intorno al Tempio e il sangue degli uccisi scorresse al suo interno, i sacerdoti continuarono a servire sull'altare e i leviti non cessarono di cantare fino alla fine.

 

CONCLUSIONE

 

 

Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. il rabbino Yochanan Ben Zakkai trasferì il Sinedrio a Jamnia. Presso questa città sulla costa di Israele, venne fondata la scuola rabbinica che si ispirava al pensiero di Hillel. Col permesso di Vespasiano, gli scribi della scuola di Hillel vi trovarono rifugio. Gamaliele II venne nominato dal Sinedrio, successore del vecchio Yochanan Ben Zakkai. Egli diede grande impulso al rafforzamento e alla compattezza del Giudaismo. Fu lì che nel 90 d.C. venne stabilito il canone delle Scritture ebraiche, ciò che noi cristiani definiamo come Antico Testamento. Questo evento, pose le basi per lo sviluppo del successivo ebraismo rabbinico, che riorganizzò il culto giudaico, senza più il Tempio di Gerusalemme. Verso il 200 d.C. vide la luce la Mishnah, trascrizione della tradizione orale degli Ebrei e tra il IV e VI secolo si sviluppo il Talmud, compendio di commenti alla Mishnah. Tutte le informazioni che sono state inserite in questo lavoro, sono tratte da tali fonti, sviluppatesi a partire dal tempo della ricostruzione del secondo Tempio, opera compiuta entro il 515 a.C. Siamo grati al fatto di aver potuto attingere da queste fonti.